Megaupload era un sito che consentiva di caricare, scaricare e condividere i propri file. Molti altri servizi del tutto similari, una volta appresa l’iniziativa con cui DOJ ed FBI hanno portato sotto sequestro il sito di Kim Dotcom, hanno chiuso i battenti volontariamente o hanno almeno fatto un passo indietro, limitandosi a fungere da servizi di storage remoto senza alcuna funzionalità aggiuntiva. Un nome, però, sembra in questa fase distinguersi dalla massa: trattasi di RapidShare, che nel tempo ha tentato di percorrere una strada propria e che oggi non cambia opinione.
Oggi, anzi, rivendica la propria diversità.
Oggi, anzi, rivendica la propria diversità.
Per molti versi Rapidshare e Megaupload possono essere servizi assimilabili.
Tuttavia dietro l’apparenza sembrano esserci matrici molto differenti.
Una differenza che può essere ricollegata direttamente ai due fondatori: Kim Dotcom e le sue auto di lusso da una parte, Christian Schmid ed i suoi 600 mila dollari spesi nel 2010 per legittimare il proprio operato con azioni di lobby dall’altra.
Ma la differenza tra le due parti non può essere pesata soltanto in termini numerici, considerando il materiale pirata come una unità di misura: il processo alle intenzioni, in questo caso, è materia prima del contendere.
A spiegare il concetto è direttamente il portavoce RapidShare Daniel Raimer, secondo il quale (rispondendo a domanda specifica) circa il 5% del materiale ospitato sui server del servizio sarebbe illegale.
Ma non è questa una reale ammissione, quanto piuttosto una semplice stima: il gruppo non ha elementi per valutare la legittimità o meno dei file, ma una analisi dei dati di download rende chiare certe dinamiche e consente di capirne l’origine.
Tuttavia, secondo Raimer, tale percentuale è di per sé insignificante poiché il rischio è quella di usare il numero come termine di paragone.
Secondo RapidShare, insomma, non è importante capire quanto materiale fosse illegalmente caricato su Megaupload: quel che conta è il modello posto in essere.
La colpa di Megaupload, insomma, non sarebbe quella di aver ospitato materiale pirata, quanto piuttosto quella di aver incoraggiato questo tipo di attività: premiare chi carica materiale vietato mediante appositi programmi di incentivo è ciò che siede Megaupload dalla parte del torto. L’assenza di tali pratiche è ciò che siede, quindi, RapidShare dalla parte della ragione.
RapidShare rivendica inoltre il proprio atteggiamento proattivo: sebbene si neghino responsabilità circa il fenomeno della pirateria, il gruppo promuove un atteggiamento responsabile che, a partire dai servizi di hosting fino agli Internet Service Provider, dovrebbe collaborare nel tentare di soffocare la pirateria nelle sue varie forme e nelle sue varie manifestazioni.
Il gruppo nello specifico avrebbe un team dedicato per la valutazione degli abusi sui server, così da tagliare i ponti con le dinamiche più smaccatamente irregolari. RapidShare anche sotto questo aspetto sbandiera la propria diversità e non fa quindi passi indietro: Megaupload, Filesonic, Fileserve ed altri sono qualcosa di diverso, che la stessa RapidShare addita e punisce.
Perché la pirateria, prima di essere sostanza, è anzitutto forma.
Tuttavia dietro l’apparenza sembrano esserci matrici molto differenti.
Una differenza che può essere ricollegata direttamente ai due fondatori: Kim Dotcom e le sue auto di lusso da una parte, Christian Schmid ed i suoi 600 mila dollari spesi nel 2010 per legittimare il proprio operato con azioni di lobby dall’altra.
Ma la differenza tra le due parti non può essere pesata soltanto in termini numerici, considerando il materiale pirata come una unità di misura: il processo alle intenzioni, in questo caso, è materia prima del contendere.
A spiegare il concetto è direttamente il portavoce RapidShare Daniel Raimer, secondo il quale (rispondendo a domanda specifica) circa il 5% del materiale ospitato sui server del servizio sarebbe illegale.
Ma non è questa una reale ammissione, quanto piuttosto una semplice stima: il gruppo non ha elementi per valutare la legittimità o meno dei file, ma una analisi dei dati di download rende chiare certe dinamiche e consente di capirne l’origine.
Tuttavia, secondo Raimer, tale percentuale è di per sé insignificante poiché il rischio è quella di usare il numero come termine di paragone.
Secondo RapidShare, insomma, non è importante capire quanto materiale fosse illegalmente caricato su Megaupload: quel che conta è il modello posto in essere.
La colpa di Megaupload, insomma, non sarebbe quella di aver ospitato materiale pirata, quanto piuttosto quella di aver incoraggiato questo tipo di attività: premiare chi carica materiale vietato mediante appositi programmi di incentivo è ciò che siede Megaupload dalla parte del torto. L’assenza di tali pratiche è ciò che siede, quindi, RapidShare dalla parte della ragione.
RapidShare rivendica inoltre il proprio atteggiamento proattivo: sebbene si neghino responsabilità circa il fenomeno della pirateria, il gruppo promuove un atteggiamento responsabile che, a partire dai servizi di hosting fino agli Internet Service Provider, dovrebbe collaborare nel tentare di soffocare la pirateria nelle sue varie forme e nelle sue varie manifestazioni.
Il gruppo nello specifico avrebbe un team dedicato per la valutazione degli abusi sui server, così da tagliare i ponti con le dinamiche più smaccatamente irregolari. RapidShare anche sotto questo aspetto sbandiera la propria diversità e non fa quindi passi indietro: Megaupload, Filesonic, Fileserve ed altri sono qualcosa di diverso, che la stessa RapidShare addita e punisce.
Perché la pirateria, prima di essere sostanza, è anzitutto forma.
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